La morte volontaria: un caso a Jesi

La cronaca racconta i fatti dell’accadere nell’esistere. La riflessione cerca di dare ad essi un significato correlato con la personalità dei protagonisti. Riflettere su un caso di morte volontaria accaduto a Jesi nel mese di Aprile di quest’anno apre interrogativi profondi sul senso della vita e della morte che interesano ognuno di noi. Le considerazioni sul caso decritto sono tratte esclusivamente dagli articoli scritti sul caso dalla stampa locale. E’ assente ogni relazione diretta tra lo scrivente e la persona interessata.

Il fatto! D. Cesarini, 66 anni, ex assessore ai servizi sociali del comune di Jesi negli anni ‘90 e candidato sindaco del PRC alle amministrative del 2012, decide ed attua di morire in una clinica svizzera di Basilea il 25 aprile di quest’anno. In Italia questa data celebra la “liberazione” dalla oppressione fascista; forse, per Daniela è stata una data simbolica per liberarsi dall’angoscia esistenziale che la possedeva. Ha realizzato il suo proposito da sola. La notizia è stata comunicata ad alcuni parenti per il ritiro delle ceneri soltanto dopo la morte ed a cremazione avvenuta.

L’esistenza di Daniela, laureata in economia e commercio e impiegata presso la BPA per 35 anni, è stata fin dall’origine sofferta. Rimasta paralizzata fin da bambina per una poliomelite conduceva la vita con dignità e coraggio su una sedia a rotelle. Cinque anni fa perdeva il marito per una neoplasia ed a gennaio di quest’anno anche il figlio, 29 anni, che era stato accompagnato (ed abbandonato) dagli “amici” davanti al pronto soccorso di Jesi per un malessere dovuto ad uso di “sostanze”. Da sempre impegnata in politica e nelle lotte sociali dalla prospettiva comunista, fino alla fine ha testimoniato il suo altruistico interesse per la collettività lasciando le sue proprietà al comune di Jesi affinchè vengano utilizzate per l’assistenza ed il sostegno ai diversamente abili.

D. Cesarini è morta in Svizzera dove la morte volontaria è possibile fin dal 1940 mentre in Italia è proibita per legge. La notizia ha fatto scalpore nella tradizionale cittadina jesina. Per molti giorni il “fatto” è stato oggetto di considerazioni da parte di molte istituzioni sia per il clamore dell’evento che per la notorietà della protagonista. Quasi tutti hanno connotato l’atto con la definizione di suicidio- assistito e non di morte-volontaria. Sorprende che il mondo laico, i “compagni” soprattutto, abbia perso un’occasione per manifestare una diversa concezione della vita e della morte rispetto a quella comune e tradizionale.

Il circolo K. Marx di Rifondazione Comunista ha allestito una camera ardente per l’ultimo saluto a Daniela e il segretario del partito ha tenuto una commossa e sentita orazione funebre durante la pubblica commemorazione in comune.

Il sindaco M. Bacci ha affermato nel ricordo dell’ex assessore: “ un fulgido esempio di persona che ha superato qualsiasi barriera Le si sia frapposta davanti nella vita e di altruismo; ha voluto lasciare al comune le sue proprietà pensando agli altri. Donna sempre in prima linea nella difesa dei diritti primari e in prima fila in numerose battaglie civili di giustizia sociale che conduceva sempre con lealtà ed onestà intellettuale”.

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Gli anarchici hanno espresso la loro ammirazione con sentite parole:”Non è facile essere donna disabile e comunista e avere una vita normale con un lavoro, un’identità da far valere, una famiglia. La scelta estrema che Lei ha fatto è un ultima testimonianza del carattere della persona che tutti abbiamo conosciuto ed apprezzato”.

Il PDCI nella lettera aperta indirizzata alla Cesarina scrive: “ Comprendiamo la tua scelta estrema e rispettiamo la tua ultima e, forse, unica debolezza”.

Il giornale Vivicittà esprime, tramite il suo direttore, il rispetto per la scelta di Daniela del suicidio assistito; d’altra parte definisce l’atto quale autodeterminazione coerente con le sue battaglie improntate alla tutela della dignità della vita. In questa prospettiva concettuale mi sembra esserci una contraddizione: la determinazione di sè non può essere connotata come suicidio.

Il vescovo G. Rocconi, sul giornale Voce della Vallesina, esprime tristezza e vicinanza a chi soffre, si astiene dal giudicare il cuore delle persone, ma non condivide la scelta attuata e affida al Signore l’anima di Daniela. Paragona, tuttavia, l’atto della Daniela con la morte sacrificale di C. Urbani. Nel paragone, sempre inopportuno, si intuisce facilmente dove, per il vescovo, si trova il “bene”: chi è morto per gli altri e dove il “male”: chi sceglie liberamene di morire.

Sullo stesso numero Don G. Giuliani afferma che la decisione della Cesarini dà profonda tristezza poiché manifesta tanta solitudine, la mancanza della speranza, l’assenza di coraggio e libertà in chi non ha più la forza di vivere. Il Vangelo insegna a non giudicare! Soprattutto quando non si conosce il cuore di chi compie l’atto di morire.

La protagonista di questa vicenda ha lasciato un messaggio tratto da una canzone del cantautore di “sinistra” F. Guccini: “ognuno vada dove vuole andare, ognuno invecchi come gli pare, ma non raccontare a me cos’è la libertà”. In questo messaggio c’è l’intenzione di rivendicare per sé la libera scelta, estrema quanto si vuole, di decidere della propria vita e della propria morte.

La mia “ipotesi” è che D. Cesarina ha deciso di morire quando, in seguito ai suoi lutti: passati e recenti, la sua vita aveva perso di senso ed era rimasta vuota priva di significato e la morte è risultata più dignitosa del vivere. Si faccia attenzione! L’ipotesi non vuole essere una “interpretazione” e nemmeno una “proiezione” dello scrivente. La verità sarebbe stata possibile conoscerla soltanto dopo avere dialogato con la protagonista e questo opportunità non ci è stata data.

A questo punto dobbiamo porci la domanda radicale su come decodificare il comportamento di Daniela: morte-volontaria o suicidio-assistito? Le due concezioni sono inconciliabili ed ognuno deve scegliere da sé dove collocarsi!

La morte volontaria ed il suicidio sono considerati dalla Chiesa Cattolica Romana come lo stesso atto e sono inaccettabili al pari dell’omicidio poiché costituiscono il rifiuto dell’autorità di Dio e del suo disegno d’amore e dell’amore verso se stessi. ( dichiarazione della S. Congregazione per la dottrina della fede N° 1 del Vaticano)

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In questa posizione si rivela la posizione mitica e metafisica che la vita dipende da Dio e solo a Lui spetta la possibilità di dare e togliere. L’uomo deve soltanto obbedire al volere di Dio. Naturalmente la posizione laica che considera Dio una proiezione fisiologica dell’uomo e che la vita dello Spirito è nell’uomo stesso non è riconosciuta, nè condivisa. Eppure nel mondo esistono altre concezioni della vita e della morte diverse da quella cattolica ed ogni popolo ne elabora una propria.

Ad esempio quella del Giappone è chiarificatrice. In questo paese l’atteggiamento individuale e collettivo verso la morte è una modalità essenziale per comprendere un popolo ed una civiltà.

Per i giapponesi nel corso della loro cultura più che millenaria la morte-volontaria, che non è il suicidio dal quale va distinta e differenziata, rappresenta l’apoteosi della vita del guerriero che non è il soldato. E’ l’orizzonte del distacco buddista dalle cose terrene quale sacrificio estremo per la valorizzazione di sé e dei valori esistenziali nei quali si crede. Nel Giappone la morte-volontaria non è una colpa, un peccato contro dio, una patologia come per il mondo cristiano, ma rappresenta una scelta etica individuale correlata al contesto dell’esistenza.

La differenza culturale nella concezione del vivere e del morire invita ad una meditazione etica profonda , severa e serena, sulla sorte e sui destini dell’uomo contemporaneo senza pregiudizi dogmatici nè pretese di infallibilità. Il presente, in una società globalizzata e solcata da inquietudini e nuovi interrogativi esistenziali, richiede il senso del relativo per favorire l’incontro tra uomini differenti e realizzare nuovi valori che accomunino l’uomo di ogni latitudine e superino il limite delle divisioni.

Anche in Italia una legge che permetta ad ognuno di decidere della sua vita e della sua morte sembra opportuna e rispettosa delle diverse concezioni dell’uomo e del mondo presenti in una società multietnica.

La persona è un essere ed un’esistenza. La vita sorge dal di “dentro” e si manifesta nelle sue azioni. La libertà della persona è l’esperienza profonda che ha la consistenza nell’auto-coscienza e nell’auto-determinazione aperta al sociale e coesiste con l’oltre e l’altrove. Ciò che viene fondato sul trascendente è spesso una proiezione dell’interno di chi non si comprende.

La vita è un fiume che scorre: il fluire nelle umane azioni. La meta sta nel cogliere il “senso” di ogni passo compiuto che è il trascendersi dall’immanenza del vivere nella consapevolezza del sé.

Il fine ultimo, il bene e la pienezza dell’esistenza non può consistere nella proiezione in una entità-concetto metafisico, ma soltanto nella condizione di essere-libero, l’esperienza più profonda dell’essere-uomo che sa di sé e nell’atto della volontà esprime l’auto-determinarsi nel quale investe tutta la sua totalità di Corpo-Psiche-Spirito-Cultura.

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