Arte da salotto, fede pret a porter: apocalittici e disintegrati

Da quando quella che in una intervista recente ho definito conversione, mi ha portato a dedicarmi totalmente all'arte, tante sono state le domande, le riflessioni, gli incontri e gli scontri. Ma un unico principio mi è stato sempre ineludibilmente chiaro, indisponibile alla contrattazione: fare arte che abbia un senso non significa aggiungere altri oggetti da salotto o da caminetto, o anche da cappella. Non significa dare forma ad una accettabile, moderatamente originale, accuratamente furba versione delle declinazioni del gusto corrente. Non significa certo épater le bourgeois ma neanche offrire il conforto di una mediocre confezione di confini sui quali ci si muove facendo attenzione a non oltrepassare il limite di guardia del gusto corrente. Non significa fare nulla che non abbia in sé l'ambizione nativa ( che costantemente viene giocoforza tradita dalla splendida limitatezza umana) di cambiare se stessi e il mondo. Altrimenti non ha senso fare arte. E chiamarla arte. Si farà, al più, della creativa produzione di oggetti, scenografie, divertissement da comodino o da salotto buono. La scala dimensionale in termini fisici o di evento non conta. Ci possono essere salotti buoni di enormi dimensioni. Ma rimangono ciò che sono: una perdita di tempo ed occasione per chi cerca il significato di una esistenza troppo breve per baloccarsi in trastulli mondani.

Ancora una volta la fede mi mostra una attinenza diretta con l'arte. Ha senso avere fede per alimentare una pratica quotidiana di dettami morali ed accettabili che semplicemente non importunino troppo la normalità del vivere comune? Che fede è quella che si preoccupa della confezione, che si dimentica nel suo stesso manifestarsi del perché esiste ? Che languisce per assomigliare al mondo dei gentili verso cui ha una sudditanza psicologica atavica come le preghiere dei farisei, da occultare per esempio costantemente la parola liturgico (quando leitourghia non giustifica timidezze anche in chi paluda la propria identità) nel timore di qualche mal di pancia ?

No, non ha senso. Diventa uno dei tanti abiti da indossare per recitare un ruolo da comprimari in questa parata del nulla che giova solo a chi in questo nulla ha affondato le radici di un trionfo economico e di potere. La capacità di compromissione oggi è talmente povera da farmi apparire la categoria dei farisei come dei veri e propri William Wallace dell'epoca antica. Arte è accettazione della ineliminabile offesa dell'alterità, è scandalo alle proprie abitudini mentali e fisiche, arte è un incidente cu cui andiamo a sbattere. Come la fede.

accettabilità sociale del Cristo, e degli apostoli che si è scelto, è uguale a zero. Anzi è negativa. Infinitamente negativa. Nessun salotto avrebbe accolto degli stranieri sudati e polverosi che dicevano parole così strane. Neanche in versione di giullari. Perché il giullare comunque è quello che in un titolo di una mostra romana pubblica era stato perfettamente definito : apocalittico e integrato. Così l'accettabilità dell'arte al sistema. Il Vangelo ha nelle sue figure sostanziali e sostanzianti falegnami, pescatori, ladroni e prostitute. Molto più rari gli impiegati e i buoni borghesi. Quelli in genere vanno a lavarsi dopo aver incontrato il Cristo o gli apostoli. In arte i ragionieri della produzione, congruenti al consumer friendly col bollino, al radical chic, o per converso alle stramberie dei ricchi, molto di rado hanno portato a qualche risultato che facesse procedere verso un umanesimo rinnovato e un avanzamento nel cammino perenne e periglioso delle comunità.

Un breve aneddoto personale. I miei studi sono rinomatamente impraticabili, perigliosi, freddi (climaticamente parlando). Ho mietuto vittime tra i completi haute couture e pret a porter qui e a Londra. Ricordo un importante gallerista di Milano che ha definito uno di questi il posto peggiore di Milano. Forse esagerava ma è uno che se ne intende. E quindi il consiglio di renderli più accessibili, magari offrendo un tè alle cinque. Non ci penso nemmeno. Vedere arte deve essere faticoso, deve essere difficile, rischioso. Non faccio quel che faccio per rendere la vita lieta. Faccio quel che faccio per renderla inquieta, e quindi smuoverla. Come la mia è stata smossa.

Non si addomesticano arte e fede. Diversamente è inutile preoccuparsi di giovani che non lavorano e non studiano, di disoccupati e di un crescente disagio che chiamerei sindrome del nulla: preferiscono di gran lunga l'eutanasia della prassi rispetto alla fatica che costa diventare altre comparse in un mondo di figuranti. Il mondo intero, la società civile oggi, ma sempre, ha bisogno di speranza, ha bisogno di testimonianza, ha bisogno di vedere oltre, e la fede e l'arte rappresentano gli unici portali per questa possibilità. Ma la speranza passa per la ferita, passa per la fatica, passa per la vitalità del dolore che inevitabilmente l'alterità porta con sé.

La Parola del Cristo cosa aveva di differente dalle parole di Caifa? O degli studiosi del tempio? Non si preoccupava certo di essere forbita, articolata, capziosa o dotta. Non era questo il piano dello scontro epocale. Era invece come il Pane e il Vino. Anzi era il Pane e il Vino. Era vita. La discriminante è che Fede e Arte sono potenti per l'uomo se sono vere, e Verità, in qualunque cultura, si accosta sempre ad una diretta, semplice, devastante forza. Uno shock scabro e così vicino da non poterlo ignorare. Su questo si deve concentrare un artista, senza preoccuparsi che questo sia popolare o meno. Oppure che smetta di chiamarsi artista. In moderazione e disciplina, credo che quando fede e arte non hanno la forza dello scandalo di quella polvere, di quel sudore, e invece passano da un centro di estetica (o di esercizio estetico come sono argute le parole) per rendersi presentabili, per farsi il lifting, per farsi le unghie, eliminare il fastidio, il disturbo, allora arte e fede sono morte, piu morte di quella razza di vipere che per lo meno un veleno potente ce lo aveva.

Raul Gabriel

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