Spigolature sulla piazza nella letteratura marchigiana

Chi é Marcello Verdenelli?

Marcello Verdenelli, professore ordinario di Lingua letteraria e linguaggi settoriali e Comunicazione letteraria alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi di Macerata, ha al suo attivo numerose pubblicazioni di critica letteraria. Davvero molteplici e stimolanti le questioni letterarie e gli autori al centro dei suoi interessi critici. Interessi sempre brillantemente sostenuti da un robusto e accattivante approccio metodologico e interdisciplinare. In particolare, si è occupato del rapporto tra letteratura e mondo delle arti figurative, di teatralità letteraria, di generi letterari (autobiografico, fiabesco, fantastico), di Leopardi relativamente all’idea di “zibaldone”, lungo un asse temporale che va dal Rinascimento al Novecento. Tra i suoi lavori recenti segnaliamo: Foscolo: una modernità al plurale (Anemone Purpurea 2007); Dino Campana: «una poesia europea musicale colorita» (EUM 2007); A fare le lettere col compasso in mano. Antologia delle Lettere Familiari di Annibal Caro (Metauro Edizioni 2009).

Considerando la particolare «funzione» della piazza nel tessuto urbanistico di certi paesi o centri marchigiani, là dove davvero la piazza si configura come un luogo ad alta concentrazione simbolica, luogo visibile e invisibile nello stesso tempo, non stupisce rilevare la sua estrema importanza nell’immaginario letterario marchigiano. Questa centralità spiega perché la piazza abbia suscitato nella letteratura marchigiana un coacervo di emozioni, di sentimenti, di stati d’animo sempre molto particolari, alimentando una cifra evocativa tra le più riconoscibili, identitarie. E davvero tanti sarebbero gli esempi da fare, ma, per l’occasione, ci limiteremo a qualche rapida e significativa spigolatura. Naturalmente, un viaggio attraverso la piazza nell’immaginario letterario marchigiano non può prescindere da Giacomo Leopardi; piazza che tra l’altro sta al centro di un «borgo» (altro significativo indicatore urbanistico marchigiano), Recanati, da cui deriva, in un pulsionale rapporto di odio/amore, la scrittura leopardiana. Prima di affrontare il discorso relativamente alla presenza della piazza nella poesia del Recanatese, un interessante riferimento leopardiano alla piazza si legge nello Zibaldone di Pensieri, e più precisamente all’interno di un pensiero sul «coro». Scrive il Leopardi in una carta (2906) dello Zibaldone in data 7 luglio 1823:

Del resto i pochi moderni che hanno introdotto il coro ne’ loro drammi regolari, come Racine nell’Ester, non avendogli dato le condizioni ch’esso avea negli antichi, niuno o quasi niuno effetto hanno prodotto. Ed anche la natura d’essi drammi sì moralmente parlando, e sì anche materialmente (poiché la scena si finge per lo più in luogo coperto e chiuso, con altre tali circostanze che restringono, e impiccoliscono, e circoscrivono, e depoetizzano le idee), non era adattata nè al coro degli antichi nè a’ suoi effetti. Parlo anche delle commedie, le quali presso gli antichi si supponevano per lo più, o la più parte di ciascuna, in piazza, o ne’ porti, come il Rudens di Plauto, o in somma all’aperto.

Come si vede, la distinzione leopardiana tra una concezione antica e moderna del «coro» avviene sull’asse interno/esterno, e dove il processo di poetizzazione, riferito al dramma e alla commedia, si determina maggiormente in una ambientazione aperta (piazza, porto); spazi aperti che predispongono più naturalmente a una cifra poetica, evocativa. Se si guarda ai Canti di Leopardi, e alla frequenza della parola «piazza», si vede come la parola, pur intensamente evocativa e centrale nel sistema poetico del Recanatese, abbia, in realtà, una frequenza piuttosto ridotta, limitata. Solo due richiami si registrano, il primo nella forma «piazza» e il secondo nella forma «piazzuola», nella tessitura dei Canti; richiami dunque molto circoscritti, ancorché molto significativi e segnaletici di un diverso approccio leopardiano al tema. Il primo si trova nell’epistola Al conte Carlo Pepoli (centocinquantotto endecasillabi sciolti), composta a Bologna nel marzo del 1826; epistola letta da Leopardi il lunedì di Pasqua dello stesso anno, nel Casino dei Nobili, presso l’Accademia dei Felsinei, di cui era vicepresidente Carlo Pepoli (da cui il titolo del componimento), il secondo nella canzone libera di quattro strofe Il sabato del villaggio; canzone composta a Recanati nel settembre del 1829 e in cui Leopardi canta la teoria del piacere futuro. In una carta dello Zibaldone (c. 532) del 20 gennaio 1821, Leopardi aveva infatti annotato: «Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in quell’ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere».

Relativamente ai richiami della parola «piazza» nei Canti di Leopardi, si tratta di due componimenti poetici che nascono in due luoghi diversi, Bologna (Al conte Carlo Pepoli) e Recanati (Il sabato del villaggio), e in due momenti temporali anche molto diversi nell’evoluzione della poetica leopardiana. C’è un significativo indicatore lessicale di fondo che ci dice del diverso tempo compositivo: il 1826 e il 1829, là dove nel primo componimento (Al conte Carlo Pepoli) Leopardi usa la parola «piazza» e nel secondo componimento (Il sabato del villaggio) la parola «piazzuola»; uso lessicale, quest’ultimo, fortemente indiziario di una evocatività sul finire degli anni Venti molto spinta, là dove Leopardi pensa a Recanati, al «natio borgo selvaggio», in una chiave molto memoriale che lascia sfilare nella parola un tratto di infanzia, di fanciullezza, di fantasticità, in linea con tutta una problematica, solo apparentemente linguistica, quella che molte carte dello Zibaldone dal 1821 al 1823 documentano dettagliatamente e che riguarda la questione del cosiddetto «diminutivo positivato». Questione linguistica, il «diminutivo positivato», che in Leopardi diventa una grande questione culturale e anche poetica, là dove le parole risultano schiacciate e soffocate nel loro tratto più fanciullesco e infantile da una dinamica storica e culturale che non riesce più a riconoscere la forma diminutiva come espressione di una libera inventività.

Leopardi chiama questo processo di invecchiamento creativo delle parole «diminutivo positivato», là dove quel tratto di infanzia della parola si è, per questioni storico-culturali, perduto, offuscato. Poiché le questioni culturali in Leopardi sono sempre molto strettamente collegate ai luoghi, non può certo passare inosservato un punto di un certo interesse, cioè il fatto che l’uso di «piazza» nell’epistola Al conte Carlo Pepoli abbia a che fare con un immaginario cittadino, appunto la città di Bologna, mentre quello di «piazzuola» abbia a che fare con un immaginario più paesano, il borgo di Recanati, il che spiega la virata decisamente evocativa de Il sabato del villaggio, come se Leopardi volesse tornare alle origini di una immaginazione non ancora corrotta da un processo culturale troppo razionalistico. Se si entra ancora più dentro la dinamica espressiva dei due termini, si fa un’ulteriore scoperta. In Al conte Carlo Pepoli non a caso Leopardi parla di «piazze romorose», di piazze cioè che hanno perduto la loro originaria evocatività e che ora sembrano fare i conti con lo sviluppo di una città moderna, là dove quel «romore» è sentito come qualcosa di inautentico, di artificioso, di fastidioso, e comunque sia come qualcosa di frenante relativamente al discorso poetico. Si leggano i vv. 63-76, versi che ci restituiscono, splendidamente, un quadro di difficoltà, di inautenticità dell’immaginario poetico, relativamente a uno spazio particolarmente caro al Poeta come appunto la «piazza»:

Lui delle vesti e delle chiome il culto

e degli atti e dei passi, e i vani studi

di cocchi e di cavalli, e le frequenti

sale, e le piazze romorose, e gli orti,

lui giochi e cene e invidiate danze

tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro

mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,

nell’imo petto, grave, salda, immota

come immortale, incontro a cui non puote

vigor di giovinezza, e non la crolla

dolce parola di rosato labbro,

e non lo sguardo tenero, tremante,

di due nere pupille, il caro sguardo,

la più degna del ciel cosa mortale.

Quadro, come si può facilmente vedere, decisamente percussivo, acustico, a partire soprattutto da quelle «piazze romorose», che sono il segno di uno sviluppo cittadino sempre più convulso, concitato, per quella sbagliata idea di un progresso comunque sia e a tutti i costi; idea che sostanzialmente allontana da una parola intensamente poetica, fatta anche di pause e di silenzi, che ha invece bisogno di spazi, di luoghi più raccolti, più intimi. In Il sabato del villaggio, a distanza di soli tre anni, il discorso risulta letteralmente rovesciato. Il flusso memoriale della canzone fa scattare immagini e situazioni molto diverse. Soprattutto, la «piazzuola» esprime, anche linguisticamente, un senso di felicità, sia pure perduta, ma che la memoria poetica riesce a recuperare con pienezza espressiva. È un po’ tutta la comunità del «borgo» recanatese (la donzelletta, la vecchierella, i fanciulli, lo zappatore) a riconoscersi in quel progetto futuro di felicità. Soprattutto, sono i «fanciulli», attratti da quella «piazzuola» che ha una funzione quasi calamitante, a trasformare il «romore» in qualcosa di «lieto», di piacevole. Un «romore» non più alienante come si legge nell’epistola Al conte Carlo Pepoli, ma un «romore» che si fa poesia, gioco, spensieratezza, felicità e dunque anche futuro:

I fanciulli gridando

su la piazzuola in frotta,

e qua e là saltando,

fanno un lieto romore:

e intanto riede alla sua parca mensa,

fischiando, il zappatore,

e seco pensa al dì del suo riposo (vv. 24-30).

Dopo la straordinaria parentesi leopardiana, dove c’è indubbiamente una idea della «piazza» ad alta definizione letteraria, nel Novecento marchigiano l’immagine della «piazza» torna di nuovo in campo alimentando una scrittura di segno sempre più memoriale e poetico. La «piazza» come spazio densamente evocativo e simbolico, quasi un tratto identitario della stessa letteratura marchigiana. L’esempio più significativo di una letteratura che crescemsulla piazza, in un intreccio di memoria e narrazione, è indubbiamente il caso del romanzo Giù la piazza non c’è nessuno di Dolores Prato, l’appartata, solitaria, talentuosa scrittrice di Treja. Romanzo, Giù la piazza non c’è nessuno (il cui titolo deriva da una nota filastrocca marchigiana che inizia con «Staccia minaccia, buttiamola giù la piazza…» e che si conclude con «Giù la piazza non c’è nessuno»), che ha costituito un vero e proprio “caso” nel panorama della letteratura italiana novecentesca. Uscito nel 1980 in una drastica riduzione e poi finalmente pubblicato in tutta la sua estensione nel 1997 presso Mondadori per la cura di Giorgio Zampa (edizione da cui si cita), a fare di Giù la piazza non c’è nessuno un romanzo molto diverso rispetto a tanti altri romanzi italiani dell’epoca è certamente l’istanza descrittiva, considerata, all’uscita del romanzo, come un elemento secondario, minore.

Così Giorgio Zampa ha chiarito il senso di quell’equivoco di fondo: «Intorno al 1980, la descrizione quale genere letterario si opponeva alla narrazione, come parte inerte a una vibrante; era diffuso il culto della struttura, i suoi adepti si consideravano i rappresentanti autorizzati della Critica. Descrivere significava rinunciare al movimento interiore, al rigore intellettuale, alla creazione di un’opera, la quale merita il proprio nome solamente se appare costruita in modo ineccepibile, secondo regole derivate dalla geometria. Le libertà che Dolores si era permessa nel suo lavoro, non furono considerate frutto di una scelta, di una volontà, ma addebitate a incapacità di creare un organismo narrativo, di compiere “l’opera”; un’inadeguatezza inammissibile, secondo strutturalisti da pagine culturali e cattedratici». A volte certe mode possono nascondere la qualità, il valore di un libro straordinario. Nel caso di Dolores Prato, quell’istanza descrittiva, vista negli anni Ottanta come un esercizio quasi manieristico, diventa, straordinariamente, atto poetico; istanza descrittiva che trova proprio nella «piazza» il suo centro emotivo. Parecchi sono nel romanzo, al di là del titolo derivato da una filastrocca popolare, i riferimenti alla piazza. Migliore definizione Dolores Prato non poteva trovare per definire quella «piazza» centrale di Treja, «piazza» che è il vero centro del libro, «piazza incielata» la definisce l’autrice, espressione dove rimbalza il respiro del cielo, «piazza» che è quasi una visione:

Nei giorni di vento si doveva creare lì sotto un vorticoso giro d’aria che sboccando dall’arco, s’allargava su quella piazza protesa allo spazio, piazza incielata, piazza unica che il mondo non sa di avere. Si attaccava alla strada, ma non ci si fondeva; la strada che veniva dalla Piazzetta passava davanti al Palazzo Comunale e in ripida discesa proseguiva per fermarsi pochi metri prima del Duomo. La Piazza era tutta dall’altra parte, difatti la strada era selciata, essa era ammattonata. Nel mezzo una fontana tanto armoniosa ed elegante che passava inosservata. A destra e a sinistra, salendo pochi gradini ci si immetteva in quella strada pensile che noi s’imboccava per andare dalla signora Esterina nell’interno del Cassero; era come un ballatoio con ringhiera di ferro che dentro il quadrato della Piazza girava a semicerchio creando alle estremità due sopraelevate piazzette triangolari. Appoggiandosi alla loro balaustra si vedeva il Municipio da mezz’aria.

Le case ai due lati non la stringevano, non la opprimevano, stavano discoste e incantate da quella vastità di aria e di luce. Sorgendo dalla terrazza pensile, erano case sopraelevate che poggiando tutte su archi alti, snelli, ariosi, parevano senza peso.

Voltando le spalle al Comune si aveva davanti qualcosa più vicina a una visione che a una costruzione. Leggermente contenuta ai lati, di fronte la Piazza sfociava nel cielo; non c’era nulla, cielo e basta. Solo per limitare il vuoto, una balaustra di pietra che aveva nel mezzo un arioso ninfeo tutto aperto, perché le isolate colonne, la poca trabeazione, l’accenno di cupola, pur alzandosi contro il cielo, non lo parasse. Balaustra e monumento lo ricamavano, non lo escludevano. Monumento, giacché in mezzo a quella nicchia ottica che lo riparava, certo, ma lo stagliava sul cielo, c’era il semibusto di Pio VI.

La balaustra di lontano sembrava quella di qualsiasi terrazzo, ma da vicino era poderosa, c’erano anche degli scalini per arrivarci. Io però non ci arrivai mai, non mi affacciai mai tra i pilastrini di quella balconata come avevo fatto tra quelli del pianerottolo della Casa del Beneficio il giorno che portarono via il lettino che mi avevano prestato.

Come fu non lo so, però vidi. Anche dalle Mura di levante vedevo tutta la terra e tutto il cielo fino al loro congiungimento, ma le stesse cose viste di lassù furono un’impressione di vuoto nel centro della vita dove sta il sole del corpo: la terra s’era sprofondata e il cielo abbassato. La balaustra era la cimasa di una enorme scarpata che andava giù giù fino in fondo dove c’era una cosa che se fosse stata brutta, avrebbe potuto essere l’Inferno tanto era profonda; ma era chiara, luminosa, liscia come un’altra piazza dentro la cornice di un lungo muricciolo e di due scalinate: quello era il gioco del pallone […] A Treja c’era il muro, ma non fabbricato per il gioco, era il muro che sosteneva la più bella piazza pensile del mondo, un muro che era la gigantesca scarpata di un’invisibile fortezza; muro incoronato dalla balaustra di quell’immenso balcone che regge in mezzo l’ostensorio di riconoscenza al papa che riportò il paese alla dignità civica.

Da quel gioco del pallone era uscito un giocatore che se non era lui, era il diavolo; per la bravura di quel diavolo trejese, il recanatese Leopardi scrisse l’ode A un vincitore nel pallone.

Da questa citazione si capisce il valore altamente poetico che la scrittura di Dolores Prato raggiunge attraverso la descrizione. Nel romanzo ci sono altri momenti in cui la scrittura ritrova, proprio attraverso l’immagine della «piazza», il suo timbro evocativo, una «piazza» che collega sempre in Dolores Prato memoria e realtà, passato e presente. Un’altra interessante citazione riguarda il rapporto evocativo che si viene a stabilire, attraverso una «piazzetta», fra Roma e Treja: «Nel centro di Roma, in quella piazzetta che non ho più ritrovata, c’era un albero venuto da Treja, dentro Treja non ce n’era nessuno. Gli alberi erano relegati all’esterno per le Mura». E dove è proprio questa assenza di natura, presente invece nella piazzetta romana, a rendere la piazza di Treja particolarmente unica, assoluta, «incielata», quasi metafisica. La valenza simbolica e poetica della «piazza» non si ferma naturalmente a Giù la piazza non c’è nessuno, che rimane indubbiamente l’opera di Dolores Prato dove la «piazza» costituisce uno straordinario centro emotivo e gravitazionale per la scrittura, ispirando una significativa cifra memoriale, ma riguarda anche altre sue opere. Non si può non ricordare, a questo proposito, le pagine, anche qui intensamente evocative, che Dolores Prato dedica in Campane a Sangiocondo alla «piazza» di Monte San Ginesio (trasformata, Monte San Ginesio, nella trasfigurazione della scrittura Sangiocondo, dove dal 1923 al 1925 l’autrice insegnò nella Regia Scuola Normale Promiscua “Matteo Gentili”); anche questa piazza descritta in un modo assolutamente straordinario e in una delicata cifra evocativa. Campane a Sangiocondo, romanzo pubblicato da Dolores Prato a sue spese nel 1963, è una sorta di romanzo-concerto, di romanzo-musicale, essendo appunto determinato da quel concerto di campane che scandisce il ritmo, la vita di un paese immerso nelle colline marchigiane, Monte San Ginesio, dove la «piazza» è un luogo, ancora una volta, carico di evocatività e di poesia:

Nel mezzo del paese c’è la piazza, palestra della vita cittadina, col monumento al più illustre dei suoi figli, un dotto che morì in esilio per sospetta eresia.

Nel punto più elevato della piazza la chiesa Collegiata di poco anteriore al mille, fiancheggiata da due modesti fabbricati di molto arretrati rispetto alla facciata: la casa del parroco e la tenenza dei carabinieri. Il farmacista, che ha la bottega all’altro lato della piazza, quando era ancora anticlericale, diceva “Cristo fra i due ladroni”.

Un lato della piazza è in gran parte occupato dal palazzo municipale con le sue logge che ospitano il caffè, la posta, il barbiere. Merceria e tabaccheria sono dall’altro lato della piazza, dietro il monumento.

Le strade sono strette, scoscese, e paiono tentacoli con i quali la piazza si afferri al monte. Quello spazio fu sempre adibito a piazza, perché è l’unico pianeggiante. Se la piazza non fosse lì non potrebbe essere altrove. Probabilmente in epoca romana fu il foro, certo nel secolo XII era già piazza e una delle più strane del mondo.

Per questa sensibilità descrittiva, Dolores Prato si può definire la scrittrice, per antonomasia, della «piazza».

Un’altra interessante spigolatura letteraria sulla «piazza» marchigiana riguarda lo scrittore Libero Bigiaretti, nativo di Matelica e dove nella sua opera, sia pure lontano dalla intensa evocatività di Dolores Prato, la piazza è un luogo che comunque sia affiora a più riprese, scandendo il ritmo di una narrazione che trova in quello spazio un significativo punto di forza. Ci riferiamo, in particolare, al romanzo Carlone. Vita di un Italiano, pubblicato nel 1950, e che ha al centro il paese di Matelica, che diventa nella trasfigurazione letteraria Metelia. Romanzo che si può definire di formazione per le vicende del protagonista, Carlo Bartocci detto Carlone, che, pur sentendo la vocazione del viaggiare (il viaggio è del resto una categoria fondamentale del romanzo di formazione), avverte anche tutta l’attrazione per il suo paese d’origine, per la vita che vi si svolge e che trova proprio nella «piazza» il suo cuore, il suo punto gravitazionale. Una «piazza» dove Carlone, «avanzo di galera» e personaggio sostanzialmente poco inserito nella rete sociale del paese, proietta il suo sogno di fuga, di evasione. Si legga l’inizio del settimo capitolo del romanzo in cui Carlone manifesta il suo sempre più incontenibile bisogno di «tentare la sorte», la fortuna:

Il caldo stava per finire quando Carlone uscì dal carcere mandamentale di Camerino e per tornare a Metelia prese il treno. Era la prima volta, e gli piacque tanto quel breve viaggio che anche in questo non dava torto a mastro Venanzio, il quale si giovava di ogni scusa per fare un viaggetto. Andava ad Ancona, mastro Venanzio, per comprare un cappello, a Bologna per consultare il medico, e poiché suo figlio Galaor andò a studiare a Roma, ogni settimana lui si recava a trovarlo. Anche Carlone sentì la vocazione del viaggiare, e questo gli agitava i soliti proponimenti di tentare la sorte.

L’uva aspettava d’essere colta nei campi, il cielo era inquieto e dai monti scendevano i primi venti freddi. In paese c’era la solita attesa ansiosa per la fiera che si sarebbe aperta di lì a pochi giorni. La fiera inebria la gente prima coi pensieri e poi col chiasso. In piazza stavano drizzando i primi banchi e, in un angolo, il palco per la musica; i negozianti si decidevano a detergere i vetri e a stanare la polvere dagli scaffali. All’angolo del vicolo Balsamo già comare Filò vendeva i lupini.

Anche per Bigiaretti, dunque, la «piazza» è un luogo molto particolare, e nel caso di Carlone è un luogo che favorisce il sogno di evasione del protagonista del romanzo. L’attenzione di Bigiaretti per la «piazza» emerge anche in altre sue opere. Nel racconto Leopolda, ambientato a Metelia, e cioè Matelica, si legge:

Paolo uscì dalla casa della zia con un senso di noia e un vivo rinnovato desiderio di essere accanto a Irma, che lo avrebbe maltrattato e amato. La giornata era in tutto adeguata alla mesta ricorrenza. Il cielo era completamente chiuso, la luce povera e falsa, l’aria fredda. Si recò sulla piazza. Dov’era la sua bellezza? Paolo si convinse di aver sempre accettato passivamente l’opinione di suo padre, riguardo alla famosa piazza. Era come tante altre di tanti altri paesi italiani, perfino troppo grande, buona, la sua vastità, solo una volta all’anno per la Fiera e, nella sua grandezza, meschina.

Nel racconto La Festa di S. Adriano (patrono di Matelica), si legge:

Sulla piazza di Matelica, vanto della mia piccola città, l’animazione non era minore e il suo livello cresceva man mano che il giorno si avvicinava al tramonto. Sulla piazza c’erano tutti: notabili, signorotti, commercianti, artigiani, operai. La conceria era chiusa e così le scuole; i contadini erano scesi dai poderi sui colli con le scarpe spesolate sulle spalle per non sciuparle. Le calzavano soltanto arrivati a camminare sulle larghe e sonore piastrelle del selciato cittadino; gente era venuta da Cerreto, da Esanatoglia, da Castelraimondo. Riconoscibili al passo e alla mole, sensali e fattori, massari e capoccia, giravano al largo della piazza e, imboccato il corso, andavano direttamente al campo boario per esaminare manzi e vitelli. Io esaminavo golosamente con non minore oculatezza, tutto quanto era esposto su panche e trespoli: i dolcetti, le ciambelle, lo zucchero colorato, i mandorlati rossi e luccicanti, i lupini, le bacche di carrube secche, i semi di zucca e di girasole, i bastoncini di liquerizia.

Nel racconto Più grande del vero, si legge un altro elogio alla piazza di Matelica:

Per molti anni della mia giovinezza, coincidente con i tempi in cui fiorivano i modi evasivi della prosa d’arte e della poesia ermetica, uno dei motivi del mio scrivere è stato quello di elogiare piazze, strade e vicoli romani e, con più affettuosa insistenza, la piazza principale del mio paese. Non avevo dubbi che essa potesse stare alla pari con gli spazi urbani disegnati dai grandi architetti barocchi. Parlavo di: “nobili edifici, disparati quanto a età e stile, che contengono la grande piazza: il loggiato rinascimentale, la chiesa barocca, il municipio neoclassico, la torre tardo romantica…”

E al centro di tanta piazza che cosa vedevo? “Al centro della piazza” sussurravo quasi fosse un segreto, “una fontana marmorea del ‘400, intorno alla cui vasca zampillano e spisciolano quattro eleganti figurette…”. Su questi elementi, e sullo stesso tono all’incirca, le ripetute descrizioni scritte e orali della piazza di Matelica, da tempo non più verificate sul vero.

Concludiamo questa rapida carrellata di citazioni letterarie sulla «piazza» marchigiana con una spigolatura relativa all’urbinate Paolo Volponi, la cui scrittura, permeata sin dall’inizio da un’inconfondibile ispirazione marchigiana (Memoriale, La macchina mondiale), ha un forte tratto ora visionario, ora espressionistico, ora poetico, scrittura che diventa, in questa oscillazione di registro espressivo, una sorta di metronomo del tratto umorale dell’autore. Al centro dell’immaginario letterario di Volponi, c’è soprattutto Urbino con la sua «piazza»; «piazza» come cuore pulsante della vita urbinate. E il tema della «piazza» affiora più volte nella scrittura volponiana, sia nella produzione saggistica che romanzesca. Città, Urbino, «corporale» per riprendere il titolo dell’omonimo romanzo di Volponi dal titolo appunto Corporale, uscito nel 1974. Urbino mai vista da Volponi in termini idillici e descrittivi, ma in una impaginazione quasi caravaggesca nei colori, nelle forme, nei tagli di luce e di ombra, nelle stradine, nei vicoli, nei portici, e soprattutto nella piazza; città, come ebbe a scrivere il Castiglione, «in forma de palazzo», là dove Urbino e il suo rinascimentale Palazzo Ducale formano un tutt’uno inscindibile. Paradiso e inferno, salvezza e perdizione, felicità e dolore, luce e ombra sono le principali dicotomie culturali in cui la narrazione volponiana di Urbino si dipana. Urbino che è, caravaggescamente, un corpo ferito, violentato, sanguinante, quasi una «sindone». Scrive Volponi in Corporale:

Ero di nuovo per le strade: ogni strada infatti è un groviglio di strade, oppure la parallela di un binario in cui l’altra è presente, sopra o sotto o di fianco che sia, seppure nascosta da muri e da edifici. Tutto sarà in circoletti o sprofondato nei pozzi; invece a me sembra che tutto comunichi e sia anzi la continuazione non solo fisica di un altro pezzo, ma proprio il completamento. Più salgo e più mi si delinea l’immagine di questa città come di un corpo o di un organo reciso di un corpo sotto un cielo lenzuolo che ne fissa continuamente l’immagine: la succhia, la compone e subito la muta [1].

Per questa sostanza intensamente tragica, pagana e religiosa nello stesso tempo, Urbino è per Volponi un microcosmo fuori dal tempo (di qui le sfasature temporali in cui la narrazione continuamente si frange), luogo fondamentalmente restio al mutamento, alla trasformazione, una sorta di cardine «memoriale» (per riprendere ancora un suo significativo titolo) utilizzato per difendersi dall’assalto di tutto ciò che viene da fuori. Quel cardine «memoriale» agisce soprattutto su uno spazio di Urbino: la piazza. Piazza pronta a espellere tutto ciò, fosse anche un semplice «rombo», che possa, anche per un attimo, inficiare quella intensità espressiva. C’è un punto in Corporale in cui questo è detto apertamente:

[…] la piazza espulse presto quel rombo e si ripresentò con il suo contegno di sempre, estranea, con le sue lapidi bianche e attaccate a un’altezza fantastica.

È la visionarietà che vince sulla realtà, l’«altezza fantastica» sulla orizzontalità delle cose, del mondo.



[1] Relativamente all’immagine di Urbino come di un corpo ferito, di una «sindone», leggibile soprattutto in quel «corpo sotto un cielo lenzuolo», si rinvia all’interessante contributo di Tiziana Mattioli, Immagine di Urbino in Corporale, in «Carte urbinati», 1(2009), pp. 185-199, là dove si legge: «Verrà figurata, sembra quasi di poter dire per quel “cielo lenzuolo” che “succhia”, “compone” e “muta”, come l’immagine di una sindone, perché Urbino è certo anche un corpo martire, livido, sanguinoso, spesso fasciato dalle “bende” del suo cielo, violentato da tagli nettissimi, come ferite».

« torna indietro