" A vita",uno studio sulla selezione della classe dirigente del PCI

Donzelli pubblica «A vita» uno studio molto approfondito sulla disastrosa selezione della classe dirigente dal Pci in poi

Edipo non è del Pd

Perché nella storia della sinistra italiana i figli non uccidono i padri? Un saggio spiega come mai dopo Berlinguer
tutti i leader sono rimasti bambini...

Dall'ultimo Pci di Occhetto al Partito Democratico, i progressisti sono rimasti incatenati alla contesa personalistica (e politicamente del tutto sterile) tra Massimo D'Alema e Walter Veltroni

Il «migliorista» Napolitano è stato sempre tenuto fuori dalle stanze dei bottoni: eppure l'Italia deve molto di più a lui che a quanti hanno lavorato per estrometterlo dai luoghi di comando

DiNicola Fano

Quando era direttore de l'Unità (tra il 1988 e il 1990, ossia mentre nel mondo cadeva il comunismo), Massimo D'Alema era una campione al gioco dei marzianetti. Si sistemava al computer di un giovane notista politico del giornale (Fabrizio Rondolino) e se ne stava lì per ore a sparare con i tasti contro astronavi e pupazzi rudimentali. S'era agli albori dei videogames da pc: lo schermo dei computer in redazione riproduceva immagini in bianco e nero. Anzi: in verde e nero. La questione può far ridere - oggi - ma all'epoca a l'Unità circolava, più o meno ufficialmente, un videogame sovietico che si chiamava Tetris: quella sorta di puzzle geometrico un po' ossessivo che esiste ancora oggi. Non so come, D'Alema introdusse i marzianetti: da un cannoncino fisso alla base dello schermo si doveva sparare compulsivamente contro qualunque cosa si muovesse. Si mormorava che fosse un gioco "made in Usa"; di sicuro era piratato perché c'era un comando per avviarlo ma non uno per spegnerlo. Bisogna dire, poi, che comunque l'introduzione dei videogames in redazione fu una conquista utile, perché prima di allora gli affezionati giocavano al flipper (i primissimi flipper elettronici, quelli in cui il colpo d'anca per indirizzare la biglia d'acciaio era impossibile) al bar sotto alla redazione romana di Via dei Taurini; D'Alema compreso, che anche a quel gioco era un campione. Sta di fatto che per parlare con il direttore lungo il corso del pomeriggio, all'epoca era meglio andare alla scrivania di Rondolino piuttosto che non in direzione.

Questa vicenda trova finalmente una sua spiegazione politologica in un bel libro di Antonio Funiciello: A Vita (200 pagine, 18 euro, Donzelli). Il sottotitolo è già una rasoiata: «Come e perché nel Partito democratico i figli non riescono a uccidere i padri». Ma sono molti i temi trattatati da Funiciello che, va detto, conosce la questione dall'interno, essendo un giovane "quadro" del Pd vicino all'area liberal di Enrico Morando. Insomma: sa bene di che cosa parla quando argomenta sulla formazione e la scelta delle classi dirigenti della sinistra italiana. Ebbene, i problemi su tavolo sono molti, vediamo uno alla volta.
Intanto, la questione che ho chiamato "dei marzianetti" (Funiciello ovviamente ignora la storia di D'Alema e dei videogiochi dell'Ottantananove a l'Unità). Partiamo dal presupposto che il Pd e suoi antenati sotto forma di partito (ossia l'ultimo Pci, poi il Pds e i Ds) sono incatenati alla contesa personalistica quanto sterile tra Massimo D'Alema e Walter Veltroni. Ma si tratta di uno scontro che appunto ha carattere esclusivamente personale e non di strategia politica: quel che bisogna capire bene, per analizzare la storia della sinistra italiana degli ultimi venticinque anni è loro unità di intenti (che corrisponde all'ingessamento della sinistra italiana medesima): se non si fa questo sforzo, lasciando alle cronache rosa le liti tra i due, non si mette a fuoco il problema della marginalità politica dell'area progressista nel nostro Paese. In altre parole: la premessa metodologica di Funiciello è che D'Alema e Veltroni vadano letti insieme, che debba essere analizzato meglio tutto ciò che li unisce, dal momento che unica e unitaria è sempre stata la loro politica. Ancorché fallimentare, purtroppo. Per valutare la novità di questa prospettiva, ricordate che è tesi (di fatto) contraria rispetto a quella esposta in un celebre saggio da Andrea Romano (Compagni di scuola, Mondadori) che invece giocava tutto sulle divisioni dei due leader storici e dei loro accoliti. Ebbene, Funiciello vede i due come dei bambini che non sono stati in grado di crescere e che per questo non si sentono ancora in età di pensione. Non è una questione anagrafica. La rottamazione renziana non c'entra proprio niente (e Funiciello lo chiarisce subito, e bene): quel che conta è che la linea politica espressa per venticinque anni da D'Alema e Veltroni non ha sbocchi e dovrebbe lasciar spazio a nuove strategie. Che i due non hanno. Ma che sembra nessuno abbia dentro al Pd.
Ma qual è l'orizzonte politico entro il quale i due si sono sempre mossi? Anche qui Funiciello ha un'intuizione importante. D'Alema e Veltroni sono rimasti nel perimetro della strategia politica disegnata dal loro "maestro" Enrico Berlinguer: il compromesso storico, dell'incontro tra cattolici e comunisti (che Funiciello con una lieve forzatura lo fa risalire fino a Togliatti). Ogni sforzo progettuale dei due "giovani", a guardar bene, è sempre stato teso al medesimo «incontro tra cattolici e comunisti» (beninteso conservando a questi ultimi il primato sui primi), alla convergenza della vecchia Dc con il vecchio Pci. Ossia l'orizzonte del progetto politico di Moro e Berlinguer che di fatto fallì sul nascere, ucciso dall'intervento delle Brigate Rosse. Le quali non solo rapirono e assassinarono Aldo Moro, ma anche subdolamente rinfocolarono almeno in una parte della dirigenza del Pci di allora la vecchia, celebre mania di non poter avere "nemici a sinistra". Nessuno, allora, tanto meno Berlinguer, ebbe il coraggio di rompere con la sinistra estrema (anche quella interna al Pci stesso, quella che predicava «né con lo Stato né con le Br») per intraprendere un cammino nuovo e magari non essere presi in contropiede, poi, dalla caduta successiva del Muro. La nascita del Pd e la cosiddetta "vocazione maggioritaria" rivendicata orgogliosamente da Veltroni in occasione delle elezioni del 2008 vanno precisamente in questa direzione "berlingueriana". E forse si può aggiungere che il risultato elettorale del Pd di Veltroni (intorno al 33%) ricalca precisamente le percentuali migliori del Pci di Berlinguer: come a dire che l'esperienza del 2008 (comunque in termini di voti una delle migliori della sinistra italiana) certifica l'impossibilità di uno sfondamento al centro del Pci-Pds-Ds-Pd. In altre parole: il Pd non sembra essersi ripreso neanche dall'ennesimo colpo subito ex-post dalla strategia berlingueriana. Naturalmente, il problema non è di Berlinguer ma dei suoi «figli» che in quasi trent'anni (il segretario del Pci morì nel 1984) non hanno saputo inventare nulla di nuovo per dare una vera prospettiva progressista a questo nostro povero Paese.
Sempre a Berlinguer occorre tornare per affrontare un'altra questione. Il problema della sinistra italiana è tutto negli errori commessi nella scelta dei suoi dirigenti. Funiciello - giustamente - fa riferimento alla formazione tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta dei «quadri intermedi», ossia quelle figure all'interno delle quali si sarebbero poi scelti i leader futuri. È abbastanza evidente che il Pci (ma non solo, ovviamente) ha sempre pescato male nel mare di questi quadri medi. A emergere non sono stati i migliori. Funiciello sul tema è più sfumato (il Pd è pur sempre il suo partito), ma basterà un solo esempio a fugare ogni dubbio sull'inappellabilità di quanto appena detto. A chiudere la stagione berlusconiana in Italia non è stato Massimo D'Alema: ché anzi con la presuntuosa pretesa di battere Berlusconi grazie alla tristemente celebre Bicamerale gli spianò la strada definitivamente (per non parlare dell'agguato che fece cadere il primo governo Prodi, quello che avrebbe potuto condurre l'Italia da un'altra parte rispetto a dove poi è andata). Non è stato Walter Veltroni: ché alle elezioni in cui frontalmente si è contrapposto a Berlusconi è stato sconfitto (con l'aggravante che poi non è voluto nemmeno restare in campo come capo dell'opposizione, dimettendosi presto dalla segreteria del Pd). Si può ricordare che un altro ex-Pci, Achille Occhetto, non riuscendo a capire la portata del nascente fenomeno-Berlusconi ne rimase a propria volta travolto. Insomma: a fronteggiare realmente e poi a chiudere la stagione di Berlusconi non è stato nessuno dei quadri medi promossi a dirigenti da Berlinguer. È stato, invece, Giorgio Napolitano, vale a dire uno dei dirigenti del Pci in ogni modo osteggiati (in base alle dialettiche interne al partito di allora) da Enrico Berlinguer. Al di là della perfetta operazione politica che ha condotto Mario Monti a Palazzo Chigi (e c'è chi si ostina a chiamarli tecnici…), nel corso del suo straordinario settennato il comunista migliorista Giorgio Napolitano ha prima spazzato l'equivoco localista e anti-unitario della Lega (con l'aiuto del 150° dell'Unità d'Italia e con i milioni di bandiere tricolori esposte lungo tutto il Paese in quell'occasione), e poi ha smascherato con la sua rettitudine la deriva a-morale della Seconda Repubblica. Poi, per completare l'opera, Napolitano ha sconfitto il bipolarismo da guerra rappresentato prima dalla dicotomia Dc-Pci e poi da quella Berlusconi-antiberlusconismo. E come ha fatto? Chiamando, quasi costringendo i partiti alla collaborazione e all'unità. Qualcuno ha dimenticato che la strategia dei miglioristi negli anni Ottanta che prevedeva un riavvicinamento tra Pci e craxismo fu accusata di "consociativismo"? Come se dialogare e mediare, in politica, fosse una colpa. Comunque sia, il problema visto a posteriori è un altro: la scelta della nuova classe dirigente fatta dai vertici del Pci negli anni Settanta/Ottanta fu sbagliata. E sbagliata ha continuato ad essere fino a oggi: ogni volta i migliori sono stati scartati.

L'ultimo capitolo del suo libro Funiciello lo dedica all'oggi: al perché. A rispondere alla domanda: perché la classe dirigente attuale del Pd non si rivolta contro i propri padri fallimentari? Funiciello analizza in parallelo la storia italiana con quella del Labour inglese mettendo in fila due generazioni di leader: D'Alema e Veltroni di qua, Gordon Brown e Tony Blair di là: «Con le elezioni britanniche del 2010 le due generazioni terminano la loro corsa parallela al vertice dei propri partiti. O, meglio, la concludono i laburisti blairian-browniani, che dopo la prima e unica sconfitta subita dai Tories del quarantaquattrenne David Cameron, si fanno da parte in favore dei giovani che loro stessi hanno allevato. Diversamente, in Italia il gruppo dirigente del partito cugino del Labour non ha cambiato il proprio vertice né dopo la sconfitta del 2001, né dopo quella del 2008, né dopo le opache prove di governo del 1998-2001 o del 2006-2008. Ha preferito cambiare due volte il nome al partito. Il Labour, viceversa, ha impiegato solo quattro mesi (agosto compreso) per fare fuori la più vincente generazione politica mai conosciuta in un secolo e più di storia». L'analisi è impietosa quanto realistica: il problema del Pd è duplice. Da un lato la mancanza di un progetto politico (da parte dei leader), dall'altro la mancanza di coraggio (da parte dei quadri medi). La causa di ciò - a detta di Funiciello - è nel meccanismo di cooptazione tipico della tradizione comunista e più di recente perpetrato in chiave istituzionale dal Porcellum. Nella sinistra italiana non contano le idee ma la fedeltà al capo: gli infedeli a Veltroni e D'Alema non hanno avuto spazio né chances. Anzi, chi aveva idee è stato guardato con sospetto. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: nessun Edipo s'è iscritto al Pd e i padri sono tutti lì che spadroneggiano (neanche troppo dietro le quinte) Il risultato è nell'orizzonte asfittico di una classe dirigente che non sa esprimere progetti che vadano oltre un generico «ritorno alla politica» né mostra carisma: ogni leader entra presto in conflitto con gli altri, sovente per ragioni di opportunismo e non di strategia politica; i capi hanno lasciato che la corruzione prosperasse anche la proprio interno; c'è sempre qualcuno pronto a subire il fascino di nuovi cattivi maestri (prima o poi, prenderanno sul serio anche questo Grillo che equivocando Pasolini, per somma ignoranza trasforma la difesa dei celerini nel 1968 in un appello alla diserzione). Solidarietà, rigore etico, cultura, memoria, uguaglianza e rispetto reciproco sono solo bandiere vuote; e d'altra parte chi è rimasto legato davvero a quei princìpi, sbandato, stenta a ritrovare negli slogan di Veltroni, D'Alema, i loro modesti cloni o i loro succedanei dei valori reali. Funiciello non lo dice, ma la conclusione da trarre è piuttosto amara: questi eterni bambini hanno continuato a gestire la politica (ossia il bene comune) come una sfida ai marzianetti. Peccato.


16/11/2012

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